UNO
Traduzione: Juls
Traduzione: Juls
Sono una clessidra.
I miei diciassette anni sono crollati e mi hanno seppellito dall'interno. Le mie gambe sono piene di sabbia e pinzate insieme, la mia mente trabocca di granelli di indecisione, scelte non fatte e impazienza mentre il tempo scorre fuori dal mio corpo. La lancetta piccola di un orologio mi dà un colpetto all'una alle due, alle tre e alle quattro, sussurrando ciao, alzati, in piedi, è ora di
svegliarsi
svegliarsi
«Svegliati» sussurra lui.
Un brusco respiro e sono sveglia ma non in piedi, sorpresa ma non spaventata, sto guardando un paio di occhi di un verde disperato, che sembrano sapere troppo e troppo bene. Aaron Warner Anderson è piegato sopra di me, i suoi occhi preoccupati mi ispezionano, la sua mano è a mezz'aria come se fosse stato sul punto di toccarmi.
Indietreggia di scatto.
Mi fissa senza batter ciglio, il petto che si alza e si abbassa.
«Buongiorno» dico, tirando a indovinare. Sono insicura della mia voce, dell'ora e del giorno in cui siamo, di queste parole che lasciano le mie labbra e del corpo che mi contiene.
Noto che indossa una camicia bianca abbattonata fino al collo, per metà infilata nei suoi pantaloni neri stranamente senza una piega. Le maniche della sua camicia sono rimboccate sopra i gomiti.
Il suo sorriso sembra far male.
Mi alzo a sedere e Warner si sposta per farmi spazio. Devo chiudere gli occhi per fermare l'improvviso capogiro, ma mi costringo a restare ferma mentre aspetto che passi.
Sono stanca e debole per via della fame, ma a parte qualche dolore, sembro stare bene. Sono viva. Respiro, sbatto le palpebre e mi sento umana e so esattamente il motivo.
Incrocio il suo sguardo. «Mi hai salvato la vita».
Mi hanno sparato al petto.
Il padre di Warner mi ha piantato un proiettile nel corpo e riesco ancora a sentirne l'eco. Se mi concentro riesco a rivivere l'esatto momento in cui è successo; il dolore: così intenso, così atroce; non riuscirò mai a dimenticarlo.
Ho un tremito.
Sono finalmente consapevole di quanto questa stanza mi sia estranea e vengo subito colta dal panico che mi urla che non mi sono svegliata dove mi sono addormentata. Il mio cuore batte all'impazzata e mi allontano piano da Warner, sbattendo la schiena contro la testiera del letto, stringendo le lenzuola, cercando di non fissare il lampadario che ricordo troppo bene...
«Va tutto bene» sta dicendo Warner. «È tutto ok...».
«Cosa ci faccio qui?». Panico, panico; il terrore mi annebbia la coscienza. «Perché mi hai riportato qui...?».
Sono finalmente consapevole di quanto questa stanza mi sia estranea e vengo subito colta dal panico che mi urla che non mi sono svegliata dove mi sono addormentata. Il mio cuore batte all'impazzata e mi allontano piano da Warner, sbattendo la schiena contro la testiera del letto, stringendo le lenzuola, cercando di non fissare il lampadario che ricordo troppo bene...
«Va tutto bene» sta dicendo Warner. «È tutto ok...».
«Cosa ci faccio qui?». Panico, panico; il terrore mi annebbia la coscienza. «Perché mi hai riportato qui...?».
«Juliette, ti prego, non ti farò del male...».
«Allora perché mi hai riportato qui?». La mia voce inizia a spezzarsi e mi sforzo di tenerla salda. «Perché mi hai riportato in questo inferno...».
«Dovevo nasconderti». Fa un respiro, guarda il muro.
«Cosa? Perché?».
«Nessuno sa che sei ancora viva». Si gira a guardarmi. «Dovevo ritornare alla base. Dovevo far finta che tutto fosse tornato alla normalità e non avevo più tempo».
Mi costringo a bloccare la paura.
Studio il suo viso e analizzo la sua voce paziente e sincera. Ricordo di averlo visto la scorsa notte – deve essere stata la scorsa notte – ricordo il suo viso, ricordo di averlo visto sdraiato accanto a me nel buio. È stato dolce e gentile e mi ha salvato, mi ha salvato la vita. Probabilmente mi ha messo a letto. Mi ha messo di fianco a lui. Deve essere stato lui.
Ma quando guardo il mio corpo mi rendo conto che indosso vestiti puliti, senza sangue, buchi o altro da nessuna parte e mi chiedo chi mi ha lavata, chi mi ha cambiata e sono preoccupata che possa essere stato Warner.
«Sei stato tu a...» esito, toccando il bordo della maglietta che indosso. «Sei stato... cioè... i miei vestiti... ».
Lui sorride. Mi fissa finché non arrossisco e decido di odiarlo un poco e poi lui scuote la testa. Si guarda le mani. «No» dice. «Si sono occupate le ragazze di quello. Io ti ho solo messa a letto».
«Le ragazze» sussurro stupefatta.
Le ragazze.
Sonya e Sara. Anche loro erano qui, le gemelle guaritrici, hanno aiutato Warner. Lo hanno aiutato a salvarmi perché lui è l'unico che può toccarmi adesso, l'unica persona al mondo che sarebbe stata in grado di trasferire i loro poteri di guarigione nel mio corpo senza correre rischi .
I miei pensieri vanno in fiamme.
Dove sono le ragazze cosa gli è successo e dov'è Anderson e la guerra e oddio cos'è successo ad Adam e Kenji e Castle e devo alzarmi devo alzarmi devo alzarmi alzarmi alzarmi dal letto e andare
ma
Cerco di muovermi e Warner mi ferma. Non ho equilibrio, sono instabile; mi sento ancora come se le mie gambe fossero ancorate a questo letto e non riesco a respirare, vedo punti neri e mi sento svenire. Devo alzarmi. Devo uscire.
Non ci riesco.
«Warner». I miei occhi si fissano convulsamente sul suo viso. «Cos'è successo? Cos'è successo durante la battaglia...».
«Per favore» dice lui, prendendomi per una spalla. «Non avere fretta; dovresti mangiare qualcosa...».
«Dimmelo...».
«Non vuoi mangiare prima? Farti una doccia?».
«No» mi sento dire. «Devo saperlo ora».
Un secondo. Due e tre.
Warner prende un respiro profondo. Altri milioni. Ha la mano destra sulla sinistra, gioca con l'anello di giada che ha sul mignolo; gioca e gioca e gioca e gioca ancora «È finita» dice.
«Cosa?».
Dico, ma le mie labbra non emettono alcun suono. Sono pietrificata. Sbatto le palpebre e non vedo nulla.
«È finita» ripete.
«No».
Butto fuori quella parola, butto fuori quell'impossibilità.
Lui annuisce. Non è d'accordo con me.
«No».
«Juliette».
«No» dico. «No. No. Non essere stupido» gli dico. «Non essere ridicolo» gli dico. «Non mentirmi, maledetto» ma ora la mia voce è alta, spezzata e trema e «No» rantolo «no, no, no...».
Questa volta mi alzo davvero. I miei occhi si riempiono velocemente di lacrime e sbatto le palpebre sbatto le palpebre ma il mondo è un casino e voglio ridere perché tutto ciò a cui riesco a pensare è quanto bello e orribile sia il fatto che i nostri occhi cercano di nasconderci la verità quando non sopportiamo l'idea di vederla.
Il pavimento è duro.
So che è un dato di fatto perché è premuto contro il mio viso e Warner cerca di toccarmi ma penso che urlo e gli allontano la mano, perché conosco già la risposta. Devo saper già la risposta perché sento il disgusto salire e scuotermi dentro, ma lo chiedo comunque. Sono distesa ma in qualche modo mi ribalto comunque, i buchi che ho in testa si aprono, fisso un punto sul tappeto a neanche tre metri di distanza e non sono sicura di essere ancora viva ma devo sentirglielo dire.
«Perché?» chiedo.
È solo una parola, stupida e semplice.
«Perché la battaglia è finita?» domando. Non sto più respirando, non sto più neanche parlando; sto soltanto sputando lettere usando le labbra.
Warner non mi sta guardando.
Guarda il muro, il pavimento e le lenzuola e le sue nocche quando stringe i pugni, ma no, non me, non mi vuole guardare me e le parole che dice dopo sono gentilissime.
«Perché sono morti, tesoro. Sono tutti morti».
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